Iniziamo con questo articolo la collaborazione con il collettivo STC, che ringraziamo.
Quest’anno il Festival delle Migrazioni è al suo secondo capitolo. In un anno la situazione non è migliorata e l’odio è aumentato. Torino ha bisogno di un festival come questo, che si proponeva già l’anno scorso di combattere l’ignoranza e i pregiudizi a colpi di cultura. L’anno scorso il dialogo si articolava in tre sezioni: arte, teatro e letteratura. Quest’anno è stata introdotta una nuova voce, quella cinematografica. È proprio nel segno del cinema che si è aperta il 25 settembre l’edizione 2019, al Polo del ‘900 di via del Carmine.
Il programma del giorno iniziava alle 18.30 e titolava Rassegna cinematografica. La prima proiezione, “Il confine occidentale” (qui l’intervista al regista sul progetto), è stata curata dall’associazione Crocevia di sguardi – Fieri. Il film è stato presentato da Ferruccio Pastore, di Fieri, e da Davide Rostan, attivista di Valsusa Oltre Confine.
La serata è proseguita con il secondo film e un dibattito a cura di Psicologia Film Festival. La pellicola era “Central Airport THF“, un lavoro del regista brasiliano Karim Aïnouz, presentato alla Berlinale 2018. Il racconto che in questa produzione il regista dispiega davanti alla telecamera ha dell’incredibile. Negli ultimi anni l’aeroporto Tempelhof di Berlino è diventato una casa per decine di rifugiati. Non si può uscire dal Tempelhof, le procedure sono lunghissime. Soltanto una grata separa l’aeroporto da un parco divertimenti lì accanto e, ogni giorno, i suoi abitanti sono osservati nella loro quotidianità da chiunque passi nei dintorni. Aïnouz ha lavorato senza attori, con un copione ridotto all’osso. Il ruolo della cinepresa è sempre presente, ma mai invadente. Pur nei dialoghi minimali, pur nelle ricercate riprese di Capodanno dei fuochi d’artificio sopra la struttura, il lavoro di Aïnouz trova la propria forza nella credibilità. Il regista in passato ha realizzato installazioni artistiche per musei e mostre e si sente spesso il richiamo a quell’estetica. L’aeroporto Tempelhof ha personaggi, ma non ha trama. Nella sua ripetitività il ruolo di chi lo abita è, per citare IMdB, perennemente «colto fra crisi e utopia». Si potrebbe iniziare e lasciare il film in qualsiasi punto, entrare nella stanza in cui è proiettato, camminare in cerchio e uscire a marcia indietro. In qualunque punto, il documentario regalerà le stesse sensazioni. Nell’aeroporto esteso da Hitler per ricostruire la Germania, col tempo divenuto la più grande struttura in disuso, la dimensione più opprimente è quella dell’attesa. I rifugiati hanno pochi mezzi per reagire a questa sospensione e sono immortalati mentre cercano di costruirsi una nuova quotidianità. Per questo ciò che avviene in camera è sempre vero, spontaneo. Un eterno richiamo alla Storia, un continuo richiamo di storie.
La terza e ultima proiezione della serata è stata “Rafiki“, in collaborazione con il Lovers Film Festival. Anche Rafiki è una pellicola del 2018, che si discosta però dalla precedente fin dal genere di finzione. La regista, Wanuri Kahiu, ha infatti avuto il coraggio di mettere su schermo una storia d’amore fra due ragazze keniote in una società dove, ancora oggi, l’omosessualità è reato. Il governo del Kenya aveva infatti bloccato la distribuzione ed è stato solo sotto la spinta dei vari movimenti di supporto LGBT* sparsi per il mondo che la pellicola è arrivata al Festival di Cannes dell’anno scorso. La proiezione è stata preceduta da un dibattito in collaborazione con il Coordinamento Torino Pride e l’Associazione Quore. È un film caldo e intimo quello che è seguito, una narrazione che scava nella psicologia di una ragazza attratta dalla figlia del rivale del padre. Le due si scopriranno con dolcezza e la loro relazione proibita le porterà a crescere, fino al sogno di evadere dal Kenya, scappare. La parola rafiki in swahili significa “amico” ed è così che in Kenya gli omosessuali devono presentare alla società il proprio partner. La situazione, quasi stereotipica, è un archetipo che Kahiu riesce a smontare con sguardo delicato. L’omofobia dei coetanei della protagonista, i rapporti fra gli abitanti di un villaggio in cui tutti si conoscono, non cadono mai nella prevedibilità. La regista firma un lavoro attento che, non a caso, è il primo film keniota presentato a Cannes. In meno di un’ora e mezza Rafiki porta anche lo spettatore a innamorarsi della complicità fra le due “amiche” e lo saluta con uno scioglimento toccante.
Su queste note si è conclusa la prima giornata del Festival delle Migrazioni. All’uscita è stato distribuito un succo di frutta senza pregiudizi aggiunti* ed è con passo più consapevole, ma anche più leggero, che gli spettatori hanno lasciato il cortile del Polo del ‘900.