I cinefili torinesi del 2020 identificano i film di Agnes Varda con la fine (momentanea…) della libertà di andare in sala: una grande rassegna su di lei è stata organizzata dal cinema Massimo e proposta a inizio marzo, prima normalmente poi a ingressi ridotti e poi bloccata. Riprogrammata per aprile, nella speranza si potesse fare, è stata di nuovo rimandata (o cancellata?).
I cinefili torinesi del 1990, invece, hanno avuto la fortuna di vederla realizzata in pompa magna e di incontrare anche la regista francese (“Sono nata a Bruxelles, ma non sono belga“, disse in quell’occasione), ospite di Aiace Torino che nell’occasione pubblicò anche un bel testo critico a cura di Sara Cortellazzo e Michele Marangi (la retrospettiva fu curata anche da Alberto Barbera). Fu la prima rassegna in Italia mai dedicata alla sua arte.
Da venerdì 23 febbraio a giovedì 1 marzo 1990, infatti, Aiace organizzò al cinema Charlie Chaplin di via Garibaldi 32 una settimana di omaggio con la sua opera omnia, intitolata “Cinécriture(s)“, e l’allestimento di una mostra di fotografie intitolata “Il piacere degli occhi” nel salone de La Stampa. Alle 18 del 23 febbraio la regista fu presente all’inaugurazione della mostra, alle 21.15 al cinema presentò “Cleo dalle 5 alle 7” per poi rispondere alle domande del pubblico.
In quei giorni Varda parò anche ai giornalisti. “Anche se siamo vecchi, noi della Nouvelle Vague non facciamo film da vecchi“, disse in quell’occasione. Domanda: qual è la differenza tra cinema femminile e maschile? “Ad eccezione di rari esempi come ‘La pelle’ di Liliana Cavani, noi donne escludiamo la violenza, non facciamo film di guerra. Forse perché siamo un po’ più oneste degli uomini che spesso, quando vogliono denunciare gli orrori di un conflitto, lo fanno con un certo compiacimento, in un rapporto ambiguo di odio e amore per la violenza. La donna, invece, la odia al punto di negarla completamente, annullandola dal mondo creativo. E poi è diversa la visione delle cose, la maniera di mostrare il corpo maschile e femminile“.
In quei giorni – solo poche ore si fermò a Torino – stava girando col marito Jacques Demy quello che sarebbe stato “Les parapluies de Cherbourg“. “È la prima volta, siamo due cineasti che non hanno lo stesso stile e io amo questa differenza che ha evitato competizioni e gelosie. Io non sarei capace di realizzare i suoi film che affrontano sì temi importanti, ma volutamente li trattano con i toni della commedia, secondo un’idea di cinema contemporaneamente divertente e raffinata, in fondo non completamente popolare“.
E non perse l’occasione per qualche sberleffo (sull’Aiace che la ospitava “Aiace? Sembra il lamento per un pizzicotto…” e su Fellini – “Mi fa tenerezza quel vecchio pazzo…“), per spiegare perché nel 1964 smise di fare fotografie (“Mi è venuta l’allergia, è pieno di giapponesi con la macchina fotografica“) e per parlare del futuro del cinema: “Quello ufficiale, industriale è morto, l’avvenire si basa su pochi fanatici, sulla trasmissione dell’amore per il cinema grazie a iniziative come questa di Torino“. Parole valide anche per il nostro prossimo futuro?
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Ricordi e memorie dalla storia del cinema a Torino, in attesa di tornare a vivere in prima persona gli eventi cittadini… Suggerimenti e consigli sono ben accetti: agendacinematorino@gmail.com