Domenica 25 ottobre alle ore 21.30 al Cinema Fratelli Marx è in programma una proiezione speciale del documentario di Anita Rivaroli “We are the thousand”, storia della community globale Rockin’ 1000 che riunisce musicisti di tutto il mondo. Il film è la storia della più “grande” rock band al mondo, iniziata nel 2015 quando per la prima volta al mondo 1000 musicisti si incontrarono nel Parco Ippodromo di Cesena per eseguire il più grande tributo mai realizzato: suonare all’unisono “Learn To Fly” e recapitare il video ai Foo Fighters. “We are the Thousand” – sostenuto anche dalla Film Commission Torino Piemonte – sarà ai Fratelli Marx anche martedì e mercoledì, sempre alle 21.30.
Anita Rivaroli, quando sei entrata nel progetto e come hai deciso di dirigerlo?
Conosco Fabio Zaffagnini, l’ideatore di questa folle idea, fin dall’università, siamo amici da tanti anni e mi ha coinvolta fin dall’inizio, ha condiviso con me questo desiderio. Ho subito pensato che fosse un’idea folle, una goliardata, ma in qualche modo mi attirava e quindi l’ho aiutato a realizzarla. Dovevo occuparmi di girare il videoclip che sarebbe stato messo in rete come messaggio per i Foo Fighters. Quando poi, il giorno dell’esibizione, ho visto il palco e i musicisti e ho interagito con loro ho capito che i 15 minuti di quel videoclip non mi bastavano: l’impresa stessa meritava di più, un documentario intero.
E’ stato il mio esordio nel documentario, prima ho lavorato come sceneggiatrice di finzione (e regista di corti): ho affrontato questa avventura d’istinto, da autodidatta. Ho filmato tutto mentre accadeva, poi ho iniziato a pensare allo sviluppo con una cura più ampia, erano cambiate le mie esigenze: mai pensato prima di fare un documentario, ora invece è un linguaggio che mi piace moltissimo e che sicuramente continuerò ad utilizzare anche in futuro.
1000 protagonisti, 1000 storie: come scegliere chi e cosa raccontare?
Ho lavorato in questo modo: ho registrato tantissimo materiale, anche quando non ero consapevole di cosa ne avrei fatto, e poi ho passato al montaggio tanti tanti mesi. Lì ho affrontato la mia vera prova di scrittura: avevo scritto un trattamento orientativo, c’erano alcune tematiche che avevano tirato fuori i musicisti e che volevo ci fossero nel montaggio finale, ma avevo Tera e Tera di materiale, ho dovuto fare una grande selezione e “distillazione”.
All’interno del documentario ci sono alcune storie personali (servivano storie giuste per le tematiche da me scelte), mi sono mossa ispirata dal lavoro di Yann Arthus-Bertrand: lui è un documentarista francese che realizza ritratti pazzeschi di mondi lontani, di tribù diversissime tra loro. Quando ho visto questo gruppo di metallari, punk, genitori, bambini del Conservatorio, veterani e musicisti alle prime armi, ho capito che per fotografare al meglio una geografia di personaggi così varia potevo usare il suo metodo: ho filmato dei ritratti di ognuno di loro su fondo nero, dovevano raccontarmi la loro vita. Poi in sala di montaggio ho scelto quelle poche informazioni che sapevano aprire un mondo, creando così una sintesi dei loro vissuti… O almeno questo è ciò che ho provato a fare.
Dopo alcuni importanti festival USA, solo virtuali purtroppo, a Roma c’è la stata la prima davanti ad un pubblico. Come è stato?
Molto emozionante! Abbiamo lavorato sodo tra gennaio e febbraio per il primo festival, l’SXSW di Austin, un festival incredibile e molto importante che ci aveva selezionato: avevamo già i biglietti in mano e siamo rimasti fregati dal lockdown. Poi la stessa cosa è successa in Canada, a HotDocs. Alla Festa del Cinema di Roma quindi siamo arrivati carichi e vogliosi di condividere, è stato liberatorio! Ora speriamo che dal 25 al 28, quando il film sarà in tutta Italia al cinema, la gente vada a vederlo.
I commenti sul tuo lavoro sono stati tutti positivi: e ora?
Ho molti progetti, sia come documentarista sia come sceneggiatrice sia – spero presto – come regista per quello che sarebbe il mio esordio nel lungometraggio di finzione: staremo a vedere!