Pablo Larrain: “A Torino devo molto della mia carriera”

Una giornata a Torino con Pablo Larrain, regista cileno di “Tony Manero” e “Jackie”, “Ema” e “Spencer”: ospite del Museo nazionale del cinema nei giorni del festival Cinemambiente, ha concesso interviste, tenuto una masterclass in Mole Antonelliana e poi introdotto al pubblico il suo film del 2008 con cui vinse il Torino Film Festival allora diretto da Nanni Moretti.

Torino per me è una città importante, ha avuto un grande impatto sulla mia vita, mi ha reso molto più sicuro di me eper ciò che ho realizzato negli anni successivi. Tutta l’Italia del resto è importante per me, da qui provengono molti dei miei eroi cinematografici, e poi c’è il festival di Venezia cui sono molto legato. Nel 2008 sono stato in concorso al Torino Film Festival con il mio secondo film, “Tony Manero”, e uno dei miei idoli di sempre, Nanni Moretti, di cui ho amato moltissimo opere come “Caro Diario” o “La Stanza del figlio”, mi ha consegnato il primo premio, e al mio protagonista Alfredo Castro quello come miglior attore. Qui mi sono sempre sentito protetto e in un ambiente amichevole, ero un ragazzo, ero qui con mia moglie (ora ex-moglie, l’attrice cilena Antonia Zeggers che appare in molti suoi film, NdI) e con nostra figlia appena nata, che aveva 6 mesi e ora ha 16 anni! Sono poi tornato come presidente di giuria, e ora qui a Cinemambiente: sono molto orgoglioso di questo ciclo che continua a esistere e che mi riporta qui, una connessione fatta anche di amore. Qui mi sento davvero a casa, anche grazie al grande amore per il cinema che si respira“.

Presentandolo al pubblico serale del cinema Massimo, al termine della giornata, di “Tony Manero” Larrain dirà: “E’ stato un film fatto con molto amore e molta rabbia, è un film punk si può dire. Se lo avete visto lo sapete, se no lo state per scoprire: la camera per tutto il tempo sta vicinissima al protagonista, è estenuante da vedere e forse dopo la visione avrete bisogno di un drink, o due, per riprendersi. Parla di amore e oppressione, due cose che non sono distinte come sembra, soprattutto in quel momento politico complesso che sotto la dittatura di Pinochet stava vivendo il mio Cile“.

Presto, forse a Venezia, vedremo il suo nuovo film, “El Conde“, in cui un Pinochet di oltre 250 anni, vampiro immortale, decide di farla finalmente finita. Del film in questo momento non vuol parlare troppo, ma qualcosa rivela. “Nessun attore nella storia del cinema ha mai interpretato il generale Pinochet, un personaggio troppo difficile. Questa volta ho deciso di farlo, prendendo spunti dalla letteratura e dal cinema e trasformandolo in un vampiro, capace anche di volare (a interpretarlo è Jaime Vadell, che era anche in “No” e in “El Club”). Ho scelto un’idea molto pericolosa perché ci piaccia o no certe figure purtroppo possono diventare eterne. In questo momento storico poi la destra radicale sta riguadagnando posizioni, in Cile come in Spagna e anche qui in Italia, purtroppo, e figure come quelle di Pinochet vengono normalizzate, si parla del successo dei suoi piani economici dimenticando tutto il resto: è molto pericoloso questo clima di impunità e di eternità per figure come la sua…“.

Del progetto annunciato come successivo, “Maria” con Angelina Jolie su Maria Callas, non vuol parlare: “Non porta fortuna parlare prima dei film da realizzare, un film – almeno per me – è un mistero finché non viene ultimato. Stiamo preparando il film, tutto quello che potrei dire potrebbe cambiare ancora (si girerà in autunno, se tutto andrà come previsto, NdI) Posso dire che ho uno script fantastico e un’attrice fantastica, amo la musica e l’opera e voglio fare questo film“.

Larrain si è poi soffermato a parlare di recitazione. “Come lavoro con gli attori? Non ho una risposta, dipende dal personaggio e dal film, non dagli attori. Ho imparato negli anni che quello che funziona meglio è lavorare intensamente prima dell’inizio delle riprese, per un paio di settimane dò loro molte indicazioni per entrare nel ruolo e poi sempre meno, sul set dò solo istruzioni fisiche, su dove mettersi o come spostarsi e null’altro. Loro diventano il personaggio prima delle riprese e poi non serve altro. Certo, quando si tratta di personaggi femminili è più facile capirli per le attrici che non per me, finora sia Natalie sia Kristen hanno capito benissimo i loro ruoli. Lavoro diversamente con Alfredo Castro, con cui collaboro da sempre e che sarà anche in El Conde: con lui il processo è diverso, quasi infinito nel corso degli anni, ma è davvero un caso unico“.

Un giornalista gli chiede di ricordare l’esperienza a Venezia nel 2013 in giuria. “Presidente era Bernardo Bertolucci, che ci disse (con me c’erano anche Andrea Arnold, Ryuichi Sakamoto, Carrie Fisher… che esperienza affascinante!) che sarebbe stato bello avesse vinto un film italiano, se ce ne fosse stato uno meritevole: premiammo “Sacro GRA” di Gianfranco Rosi, che prima e dopo quel documentario ha continuato a fare grandi film. Ma c’erano molti bei film quell’anno, come “Under the skin” di Jonathan Glazer che vinse un premio, venne fischiato dal pubblico veneziano ma ora è un classico, un film di culto, per me uno dei migliori di tutti i tempi. C’era anche Tsai Ming-liang quell’anno… Il cinema italiano da allora non vince il Leone, ma non so perché. So che alcuni autori lavorano su un cinema senza tempo, e lo apprezzo molto: ho visto alcune immagini de “La Chimera” di Alice Rohrwacher, che era a Cannes: mi ha spiazzato, non si capiva a che epoca appartenevano quelle immagini… al tempo del cinema! E’ l’unica vera macchina del tempo che siamo stati capaci di inventare“.

Il cinema hollywoodiano di oggi non gli piace, e non lo nasconde. “Porto i miei figli al cinema e vedo i film che piacciono a loro, sono tutti così pieni di stimoli in ogni momento, esplosioni, uccisioni… Io faccio film diversi. Ho visto tutti i film Marvel, e sono sostanzialmente sovrapponibili: potresti prendere la musica di uno e metterla sull’altro e non cambierebbe nulla…“.

Sollecitato in merito, il regista cileno dice qualche parola anche sulla casa di produzione di famiglia, Fabula. “Lavoro con mio fratello, è lui a cui si deve dare il merito di tutto: senza il suo lavoro ammetto che neanche io sarei riuscito a fare molte delle cose che ho fatto. Abbiamo prodotto grandi registi, come Sebastian Lelio, abbiamo fatto molti errori ma anche film di valore, da cosa dipenda la differenza a volte è difficile da capire. Quando abbiamo iniziato il cinema sudamericano era in cambiamento e siamo stati fortunati a far parte di questo processo: ma non è importante solo fare un film riuscito, è fondamentale l’aspetto di vendite e distribuzione, in questo il merito è solo di mio fratello se i miei lavori non sono finiti in un armadio o ignorati dal pubblico. Da parte mia sono molto contento anche perché per me è l’unico modo di collaborare con altri filmmaker, cosa che trovo molto stimolante“.

In Mole la consegna del premio alla carriera. Ricevendolo, Larrain ci tiene a dire: “Devo ringraziare il Museo per tutto ciò, ma anche tre persone: Antonia, la madre dei miei figli, Alfredo Castro, mio amico oltre che il mio attore preferito, e mio fratello Juan“.

Poi c’è spazio per un lungo riepilogo dei suoi film, analizzati insieme a Grazia Paganelli e Marco Fallanca con grande generosità. Dall’esordio “Fuga” del 2006 che ricorda contro voglia (“Su questo film abbiamo lavorato tantissimo, aveva grandi potenzialità ma era pretenzioso, è stato accolto male: ho una relazione complicata con “Fuga”, mi dà molto dolore ripensarci“), all’acclamato “Tony Manero” (“Non c’è empatia in questo film, lo so: che ci sia bisogno di empatia è una convinzione sbagliata che ci dà il cinema hollywoodiano“), per poi passare a “Post Mortem“, la cui idea nacque proprio nei giorni di quel lontano TFF. “In albergo ho cercato informazioni ufficiali sulla morte di Allende, e ho trovato l’autopsia: leggerla, in quel linguaggio così complicato e rivelatore, mi ha dato l’idea e mi ha fatto pensare fosse un perfetto ritratto del mio Cile“.

Il film successivo fu “No” con Gael Garcia Bernal (“Questo sì, un film con molta empatia!“) a “El Club” (“Scelsi per caso di far passare il tempo ai preti protagonisti con le corse dei cani, in quel periodo divennero illegali in Cile: per questo motivo, per la violenza sui cani, il film è andato malissimo negli Stati Uniti. Puoi uccidere chiunque in un film per loro, anche dei bambini, e non ci sono problemi: ma se fai male a un cane, è finita!“), da “Neruda” (“Non volevo fare un film su di lui, è stato mio fratello a insistere!“) a “Jackie” (di cui è stata mostrata la scena in cui la vedova Kennedy ascolta il disco di “Camelot” da sola e così “celebra il suo funerale privato, è esattamente il cuore della storia per me“, e di cui ha lodato la colonna sonora: “L’ho affidata a Mica Levi, che avevo conosciuto a Venezia proprio per “Under the skin”, aveva fatto un lavoro straordinario“), per ogni film Larrain un aneddoto o una riflessione. Compresi “Ema” (“Ho scoperto le percentuali di bambini restituiti dalle famiglie dopo essere stati adottati, sono rimasto sconvolto e volevo parlarne: ma ho scelto di non concentrarmi sul bambino, l’avrei trovato pornografico. E poi ci ho aggiunto il reggaeton“) e Spencer” (“Non invidio affatto i membri di quella famiglia, credo vivano nella più ricca ma opprimente prigione del mondo, non sono liberi di fare nulla“), al momento gli ultimi lavori di una carriera già preziosa ma ancora agli inizi.

Articolo e intervista a cura di Carlo Griseri