Dal 15 gennaio al 6 maggio il ricco palinsesto del cineteatro Baretti si arricchisce con DIETRO LO SCHERMO Rassegna di cinema e psicoanalisi, terza edizione, sottotitolo PSYCHO – L’ADOLESCENZA. Biglietto intero € 5; Biglietto ridotto € 4.
Otto film su una stagione della vita: l’adolescenza.
Il giovane Holden (17 anni) al cinema. Psycho, rubrica nata diversi anni fa per iniziativa del sottoscritto e pubblicata sulla nostra rivista dell’IPP “Berggasse 19”, ripropone una terza edizione del cineclub psicoanalitico, nato dall’alleanza e dalla collaborazione tra l’Istituto di Psicoterapia Psicoanalitica (IPP) e il CineTeatro Baretti di Torino.
Questa volta siamo stati forse più audaci, scegliendo otto film (molto belli) che raccontano storie di adolescenti di ieri e di oggi.
Da un punto di vista del godimento della visione non vi sono dubbi. Si tratta di film che fanno a gara ad essere uno più bello dell’altro. Da un punto di vista psicoanalitico nascono molte domande, considerato che si tratta di una stagione della vita, quindi di tutti noi, ragazze e ragazzi, forse la più travagliata. Ci sono le invarianti, ma anche le varianti, perché gli adolescenti della nostra epoca e quelli del passato si assomigliano come due gocce d’acqua, ma sono gemelli differenti (oggi più sofferenti di sempre). Il dolore psichico, il male di vivere, attraversa tutti gli otto film, tutte le storie dei nostri adolescenti. Però grazie anche alla bellezza che li abita (film, storie, ragazze e ragazzi) vengono evocati – attraverso la rappresentazione dei personaggi e delle loro vite, che si possono aprire (o chiudere) alla vita – sogni, speranze, desideri.
Ci piace dedicare questa rassegna al “l’uomo che amava le donne”, a Francois Truffaut, il più grande autore di cinema sulla e della adolescenza ferita, ma ostinatamente disubbidiente.
Lo sguardo in macchina (nell’ultima scena del film “I 400 colpi”) dell’adolescente Antoine Doinel (Jean-Pierre Lèaud) non si può dimenticare, perché entrato nella carne e nel sangue, nella nostra anima: ci siamo riconosciuti.
Gli siamo ancora debitori, in quanto grazie anche a lui ci ri-troviamo, finalmente, nel cuore pulsante della psicoanalisi dell’affetto.
(Dottor Claudio Grasso, direttore della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicoanalitica dell’ IPP di Torino)
DIETRO LO SCHERMO, Cinema e Psicoanalisi, è la terza edizione della rassegna che partirà il prossimo 15 gennaio 2024 e proporrà un appuntamento quindicinnale, il lunedì alle ore 21. La rassegna è organizzata in collaborazione e grazie al contributo dell’Istituto di Psicoterapia Psicoanalitica di Torino.
La Scuola di Specializzazione, nata nel 1988, forma laureati in Psicologia o Medicina e Chirurgia alla Psicoterapia psicoanalitica attraverso lo sviluppo di conoscenze teoriche e di competenze cliniche.
Offre agli allievi una specifica e adeguata formazione professionale idonea all’esercizio dell’attività psicoterapeutica individuale e di gruppo, nel contesto delle istituzioni sia pubbliche sia private, come nell’ambito della pratica privata e della libera professione.
CALENDARIO
Lunedì 15 gennaio 2024, ore 21
GENTE COMUNE di Robert Redford (USA, 1980, 123’)
I Jarrett sono una famiglia dell’alta borghesia sconvolta dalla morte del primogenito e dal tentativo di suicidio del secondo figlio Conrad. Il padre (Donald Sutherland) prova a superare il trauma salvando gli affetti e convincendo l’adolescente Conrad a vedere un analista (Judd Hirsch), ma si scontra con la freddezza della moglie (Mary Tyler Moore).
Robert Redford esordisce alla regia con un dramma famigliare raggelato e raggelante, in cui le ritualità dell’alta borghesia wasp (la barca, i sobborghi immersi nel verde, il golf, lo sport scolastico, le vacanze natalizie) vengono a contatto con l’imponderabile, il dolore e la perdita, gabbie per la costruzione di affetti autentici e per il superamento dei traumi. Esemplare, in tal senso, la chiusura dietro il formalismo borghese del personaggio della madre, splendidamente tratteggiato da Mary Tyler Moore. Tra tutti questi miti messi in discussione resiste la psicoanalisi, investita ancora una volta di un potere demiurgico e salvifico. Di indubbio impatto emotivo, il film ebbe all’uscita un successo straordinario di premi e di pubblico: cinque Golden Globe e quattro Oscar, tra cui quello al miglior film. Statuette all’esordio sia per Redford (regia) che per Timothy Hutton (attore non protagonista). La colonna sonora è basata sul seicentesco Canone di Johann Pachelbel, i cui fortunatissimi accordi si ritrovano, tra gli altri, anche in Let It Be dei Beatles e nell’Inno dell’Unione Sovietica. Da un romanzo di Judith Guest.
Lunedì 29 gennaio 2024, ore 21
CHIAMAMI COL TUO NOME di Luca Guadagnino (Italia, Francia, Brasile, USA, 2017, 130’)
Estate 1983. Elio (Timothée Chalamet), timido diciassettenne americano con la passione per la musica, sta trascorrendo le vacanze nella tenuta di famiglia insieme ai propri genitori, nella campagna lombarda. L’arrivo nella villa di Oliver (Armie Hammer), affascinante studente ventiquattrenne, coincide con l’inizio di una amicizia sempre più intima che porterà i due a innamorarsi l’uno dell’altro.
Ispirato all’omonimo romanzo (2007) di André Aciman, il quinto lungometraggio di finzione di Luca Guadagnino è un lineare racconto di formazione che scivola in maniera pudica nell’educazione sessuale del giovane protagonista. Un film libero e spontaneo, che trova nella placida calma dell’assolato paesaggio agreste lo scenario ideale per affrontare una storia di fertile semplicità segnata da un significativo gusto per il dettaglio. Questo delizioso coming of age, che può ricordare il cinema di Eric Rohmer, è valorizzato dalla scelta di ambientare la vicenda in un preciso contesto storico-culturale, con la politica che appare dagli schermi della TV, da una semplice immagine colta con naturalezza (quella di Mussolini) o da pittoreschi discorsi a tavola. L’amore diventa espressione di uno stato d’animo che vuole e deve rifiutare il pregiudizio e la repressione dei sentimenti, come se il “fantasma della libertà”, suggerito anche dal riferimento al film di Buñuel, si dovesse fare largo dall’effimera spensieratezza degli anni ’80, costantemente velata di malinconia. La bellezza del corpo, incarnata dalla figura di Armie Hammer, si specchia nella bellezza dell’Arte (le sculture, i reperti archeologici) e in quella della musica, in un’opera che ricerca in maniera misurata la modernità ma non si vergogna di guardare a un cinema di stampo classico. Oltre ai due protagonisti, sempre credibili, hanno un ruolo di rilievo i genitori di Elio, veicolo di una non banale apertura mentale. Attraverso un approccio tradizionale, il regista palermitano limita al massimo i virtuosismi di regia, rimanendo sempre in sintonia con una scrittura lontana da ogni eccesso melodrammatico: notevolissima, in questo senso, la sceneggiatura di James Ivory, il quale originariamente avrebbe dovuto anche dirigere il film. Il risultato è un’opera sofisticata e palpitante, valorizzata anche dai brani di Sufjan Stevens, composti appositamente per il film, e dalla memorabile performance di Michael Stuhlbarg, nei panni del padre di Elio, a cui è affidato un monologo che è probabilmente la vetta assoluta dell’intera operazione. Oscar per la miglior sceneggiatura non originale più altre tre nomination: film, attore protagonista (Timothée Chalamet) e canzone originale (Mystery of Love di Sufjan Stevens). Presentato al Sundance Film Festival, nella sezione Panorama Special della Berlinale 2017 e in innumerevoli altri festival internazionali.
Lunedì 19 febbraio 2024, ore 21
IL GRANDE COCOMERO di Francesca Archibugi (Italia, 1993, 96’)
Pippi (Alessia Fugardi) ha dodici anni e soffre di epilessia. Vive con il padre (Armando De Razza) e la madre (Anna Galiena), che ora stanno insieme solo per la malattia della figlia. Dopo l’ennesimo attacco, la ragazzina viene ricoverata al Policlinico Umberto I di Roma, dove è seguita dallo psichiatra Arturo (Sergio Castellitto): il suo approccio non convenzionale aiuterà Pippi a trovare un rinnovato entusiasmo.
Il terzo lungometraggio di Francesca Archibugi prende spunto dalle iniziative del neuropsichiatra infantile Marco Lombardo Radice, sperimentatore di tecniche rivoluzionarie basate sull’ascolto delle richieste del paziente, sul coinvolgimento di tutto lo staff medico e sull’apertura del reparto per i giovani malati, che possono così uscire ed entrare in contatto con la realtà. La possibilità di far apparire il medico come un santo o di mostrare i giovani pazienti come martiri è evitata dall’approccio sobrio della regista, che sceglie di raccontare i personaggi come persone semplici, con pregi e difetti, mettendo in luce le loro mancanze e debolezze. La trama acquista spessore grazie al sincero coinvolgimento emotivo di una storia che non aspira a narrare grandi imprese, ma si cala nella quotidianità. Un film che tratta il tema della malattia con intelligenza, evitando sentimentalismi e riuscendo a essere, nel complesso, delicato e attento. Qualche eccesso di enfasi tragica ma, fortunatamente, non mancano i momenti divertenti ad alleggerire un clima altrimenti troppo deprimente. Premio della Giuria Ecumenica al Festival di Cannes.
Lunedì 4 marzo 2024, ore 21
LADY BIRD di Greta Gerwig (USA, 2017, 93’)
Studentessa all’ultimo anno in un liceo della periferia di Sacramento, Christine (Saoirse Ronan) sogna New York: sullo sfondo, il difficile rapporto con la madre Marion (Laurie Metcalf), il teatro, le amicizie, le relazioni sentimentali, i miraggi di un futuro universitario che possa sradicarla dal microcosmo nel quale Christine, che si fa chiamare da tutti Lady Bird, si sente imprigionata.
Di nuovo dietro la macchina da presa dopo aver co-diretto nel 2008 Nights and Weekends con Joe Swamberg, l’attrice Greta Gerwig, una delle massime icone femminili del cinema indipendente americano, firma la sua prima vera opera prima, dai nitidi e inequivocabili echi autobiografici. «Chiunque parli dell’edonismo californiano non ha mai passato un Natale a Sacramento», dice Joan Didion nella citazione che apre il film: Sacramento è la città in cui la stessa Gerwig è nata e cresciuta ed è difficile non scorgere nella parabola della stramba, acida ma anche umanissima protagonista, un alter ego della regista, alle prese anche lei, a suo tempo, con il grande salto dalla castrante e piatta provincia californiana ai rutilanti stimoli intellettuali dell’aliena e tentacolare New York. La mamma vorrebbe tenerla vicino a casa, tenerla lontana dalla East Coast, e in questa conflittualità c’è molta della dolente vitalità del film, della tridimensionalità e della profondità con cui affronta, attraverso un’ottima scrittura, i rapporti familiari e le relazioni sociali, i desideri frustrati di chi cresce e le preoccupazioni incancrenite di chi invecchia. Più che un catalogo di situazioni adolescenziali, è un film sulla goffaggine, buffa e stridula, con cui in quell’età si provvede a costruire a tavolino la propria identità, con una violenza verso sé stessi spesso eccessiva, ma anche un esordio che ha già l’incedere giusto e il passo fermo di una maturità voluta e cercata, faticosamente e dolorosamente conquistata. Molte caratterizzazioni dei personaggi di contorno sono prevedibili e bidimensionali e Lady Bird ricalca senz’altro tanti schemi ammiccanti e altrettante, scaltre scorciatoie tipiche dei film da Sundance, soprattutto nel coccolare stereotipi intellettuali e atmosfere ovattate. È incantevole, però, la sincerità con cui la regista si racconta attraverso la sua memorabile protagonista, interpreta da un’eccezionale Saoirse Ronan, senza censurarne la sgradevolezza quando essa fa capolino e lavorando sugli affetti con millimetrica grazia. A cominciare dal rapporto di amore e odio con Sacramento, che si scioglie in un finale purissimo e onesto.
Lunedì 18 marzo 2024, ore 21
TOMBOY di Céline Sciamma (Francia, 2011, 84’)
Laure (Zoé Héran), 10 anni, si è appena trasferita in un nuovo quartiere: un po’ per gioco, un po’ per sopperire alle difficoltà di integrazione, si presenta ai coetanei come un ragazzino di nome Michael. Quando la sua vera identità verrà svelata, una piccola tragedia si abbatterà sulla comunità.
Delicatissima riflessione sulla pre-pubertà, diretta dalla francese Céline Sciamma, che, al secondo lungometraggio, dimostra già invidiabile talento e sicurezza nel confrontarsi con temi affatto semplici. Riuscendo nell’impresa di rapportarsi alla materia con un approccio originale e mai eccessivo, Sciamma costruisce un impeccabile ritratto di signorina, condendo i silenzi e gli sguardi della piccola Laure, crisalide androgina e commovente, costruendo al contempo una pungente critica al pregiudizio e alla ristrettezza di mentalità. Le scelte di Laure non hanno una motivazione, sessuale o sociale, ma piuttosto il sapore di un gioco di fantasia sfuggito di mano e forse per questo sono ancora più estreme e sconvolgenti, per la famiglia, per la piccola comunità e per la ragazzina stessa. Lo stile raffinato ed essenziale della regia, abilissima nel non far avvertire la propria presenza, costituisce una perfetta cornice formale per quello che è un racconto di formazione esemplare e degno di essere mandato a memoria. Notevole performance della giovanissima protagonista. Teddy Award (premio cinematografico internazionale per film con tematiche LGBT) al Festival di Berlino.
Lunedì 8 aprile 2024, ore 21
CLOSE di Lukas Dhont (Belgio, Paesi Bassi, Francia, 2022, 105’)
Léo e Rémy, 13 anni, sono sempre stati amici, legati da un affetto fraterno sin da piccolissimi. Ma con l’arrivo in una nuova scuola le cose cominciano a cambiare fino a quando un evento inaspettato li separa. Léo allora si avvicina a Sophie, la madre di Rémy, per cercare di capire cosa è davvero accaduto.
Alla sua opera seconda, per molti la più difficile, Lukas Dhont centra nuovamente il bersaglio e il Grand Prix al Festival di Cannes confermando il talento del regista belga che anche in Close riflette sulla violenza, anche solo psicologica, subita da chi non è conforme alle aspettative della società̀, da chi sfugge a una convenzionale idea di mascolinità̀ e non riesce a rivendicare il diritto alla propria fragilità̀. «Penso che Close riprenda i temi di Girl – ha raccontato Dhont – pur essendo un film completamente diverso. C’è una rottura, l’identità̀ resta centrale, ma declinata in un’altra chiave. Volevo prima di tutto fare un film sulla bellezza e la fragilità̀ dell’amicizia».
Il senso di Dhont per il cinema è fatto di sguardi e silenzi, ellittiche traiettorie interiori e stati d’animo febbrili che in Close trovano un incanto speciale. In questo nuovo romanzo di formazione il regista belga torna a indagare il tema dell’identità̀ tra scoperta di se stessi ed elaborazione della tragedia e si affida soprattutto all’istinto di Eden Dambrine, che nel volto ha una luce speciale e che con Gustav De Waele trova una complicità̀ nutrita di grazia, mistero, tenerezza e di un legame esclusivo spezzato con rabbia. Nella seconda parte il film ci porta altrove, alla scoperta di sentimenti diversi, più̀ aspri, lasciandoci con la nostalgia di una magia perduta per sempre.
Per cercare ispirazione, il regista è tornato nel villaggio dove abita sua madre, nella sua scuola media. «In fondo faccio film per il bambino che sono stato e mia madre mi ha sempre incoraggiato. Mi ha regalato la prima macchina da presa ed è stata la mia prima attrice quando avevo 12 anni» ha raccontato.
Lunedì 22 aprile 2024, ore 21
I MISERABILI di Ladj Ly (Francia, 2019, 102’)
Stéphane (Damien Bonnard) si è unito all’unità operativa di un diparimento anti-crimine a Montferneil, nei sobborghi di Parigi, dove Victor Hugo ambientò il suo romanzo più celebre, I miserabili. Il legame con i suoi due nuovi colleghi, dai modi bruschi e indisponenti, fatica però a mettersi sui binari giusti e la situazione precipita definitivamente quando un drone li riprende mentre si macchiano di alcune azioni disonorevoli ai danni di un gruppo di adolescenti.
I miserabili (Les misérables) segna l’esordio alla regia di Ladj Ly, già co-regista del notevole documentario A voce alta e autore del cortometraggio omonimo da cui ha tratto il suo grande salto dietro la macchina da presa. È un film duro e diretto, che racconta la banlieue con i codici spettacolari dei blockbuster americani: azione concitata, dialoghi secchi e ficcanti e un ottimo lavoro nella gestione corale dei personaggi, che non sono pochi ma sono tutti caricati di una precisa valenza narrativa e, dato il tema e le ricadute in ballo, anche sociale. Qualche cenno di retorica e di manicheismo non manca, soprattutto nella contrapposizione tra buoni e cattivi, tra poliziotti super corrotti e ultimi tra gli ultimi. Eppure c’è una tale limpidezza emotiva nel tono – oltre a una precisione e una giustezza nell’afflato civile – così forte da far perdonare fin da subito questi limiti per prediligere l’immedesimazione e l’indignazione, il coinvolgimento viscerale e l’adesione alle sorti della parti in causa.
I miserabili prende il titolo e l’ispirazione da un testo letterario arcinoto e si colloca nei luoghi che ispirarono Hugo e nei quali lo scrittore stesso abitò: il parallelismo tra il passato e il presente è piuttosto sconcertante e il richiamo temporale, le rivolte del 2005, assolutamente calzante. Si tratta di un’opera prima che, pur senza andare per il sottile, riesce ad affrontare il presente della Francia restituendone il crocevia multiculturale e multirazziale e mettendo a fuoco un ecosistema urbano totalmente emarginato, in cui i colori della bandiera francese sopravvivono solo sulle maglie dei calciatori e lasciano, nella realtà, a una situazione dai contorni mesti e ingrigiti, quando non addirittura nerissimi.
Lunedì 6 maggio 2024, ore 21
AMERICAN GRAFFITI di George Lucas (USA, 1973, 110’)
Per Curt (Richard Dreyfuss) e Steve (Ron Howard) è l’ultima notte nella loro piccola città, prima della partenza per il college: con loro gli amici John (Paul Le Mat) e Terry (Charles Martin Smith). Sarà un susseguirsi di disavventure, amori e divertimenti, per non pensare troppo all’età adulta che è alle porte.
«Where were you in ‘62?» recitava il manifesto originale dell’opera seconda di George Lucas, prodotta da Francis Ford Coppola e rapidamente divenuta un cult. L’unica regia di Lucas che non transita nei territori della fantascienza è un adorabile viaggio nostalgico nell’età dell’innocenza: quella dei giovani protagonisti e quella dell’America, che di lì a un soffio dovrà fare i conti con l’assassinio Kennedy e l’inferno del Vietnam. In questo ritratto spassoso ma al contempo dolceamaro, dal sapore autobiografico, il futuro creatore di Star Wars individua quegli archetipi che segneranno le commedie generazionali a venire: dai personaggi – l’intellettuale indeciso Curt, il bravo ragazzo Steve, lo “sfigato” Terry, il “bello e dannato” John – a imprescindibili topoi come la corsa in macchina, il drive in o la prom night (un’iconografia poi riciclata dalla serie tv Happy Days, dove addirittura Ron Howard interpreterà un ruolo molto simile a quello del film). Lucas celebra a posteriori il canto del cigno del sogno americano, del cui tramonto sembrano essere consci gli stessi protagonisti, fotografati in un malinconico disagio: il loro futuro è già scritto nelle didascalie che chiudono il film. Strepitosa la colonna sonora rock’n’roll che, trascinata dal deus ex machina Wolfman Jack (in italiano Lupo Solitario, vero deejay che interpreta sé stesso) sgorga come un fiume in piena sulle note di Chuck Berry, Buddy Holly, Beach Boys, Fats Domino e tanti, tanti altri.