Da lunedì 20 a mercoledì 22 gennaio al cinema Romano è in programma “Il mestiere di vivere” di Giovanna Gagliardo, dedicato allo scrittore piemontese Cesare Pavese e presentato in anteprima all’ultimo Torino film festival (lunedì e martedì alle 16, mercoledì alle 20,30 alla presenza della regista in sala).
A partire dall’ultimo giorno di vita di Pavese, il documentario mette al centro della storia l’uomo e lo scrittore attraverso vari capitoli che raccontano i tanti mestieri che ha sperimentato. «Ho scelto di partire dall’ultimo triste giorno della sua vita, il suicidio avvenuto quando aveva solo 41 anni, volevo togliermi subito il cliché dello scrittore suicida per amore. Certo, è una parte importante della sua storia ma la sua vita è stata molto più interessante di quegli ultimi cinque minuti. Ha fatto tante di quelle cose in così poco tempo che a me ha fatto impressione, oggi sarebbe impossibile pensare a tanto lavoro – e di che qualità – ha concluso in così poco tempo».
Dopo Torino, “Il mestiere di vivere” continuerà il suo tour per l’Italia nelle terre di Pavese (e della regista, originaria di Monticello d’Alba), da Alba a Carmagnola e Bra. «Sicuramente le Langhe hanno contribuito a renderlo ciò che era, anche se dopo le elementari è andato via e non ci ha più vissuto, anche se ha continuato a tornare per tutta la vita. L’idea dell’origine gli stava molto a cuore, per lui Santo Stefano Belbo era come Itaca, lo dico provocatoriamente ma credo sia vero. Io anche sono andata via dalle Langhe da decenni, torno sempre volentieri ma non sento il legame così intenso come lui, è affettuoso e costante però, la famiglia è lì e torno per le feste comandate, come si dice, e spesso in altri momenti dell’anno. Sono molto felice e sorpresa della risposta del pubblico, in queste tappe in giro per l’Italia c’è sempre molta gente e soprattutto molto calore nel dialogo a fine proiezione».
Quali sono gli obiettivi di questo progetto? «Spero di ridare a Pavese un posto centrale, negli ultimi decenni in Italia lo avevamo un po’ accantonato, forse perché lo si vedeva come un autore generazionale, anche io per un po’ ho pensato fosse datato, locale, e quindi è stato scavalcato da autori più giovani e moderni, più fighetti anche. Ma non è così, se lo rileggi e alla luce della sciatteria di cui si parla oggi, c’è una scrittura bellissima, una scelta delle parole impeccabili: ce ne fossero oggi di persone che sanno scrivere come lui! Io non ne conosco. Soprattutto una problematicità nell’affrontare le cose che forse ci dava fastidio ma ora è lo specchio della vita quotidiana».
Come mai proprio ora ha scelto di raccontarlo? «Da tempo alcune persone mi chiedevano di fare qualcosa sugli scrittori della mia terra, Pavese in particolare. Grazie alla Fondazione Pavese ho scoperto molto di lui che non sapevo, la sua passione nel lavoro di traduttore, ad esempio, i suoi sforzi per trovare la parola giusta, tutte cose che mi hanno attratto verso la sua storia. Ho sentito la fatica di un uomo che cerca la perfezione, questo mi ha molto sedotta a dire la verità, e sono andata avanti. Sto ricevendo proposte interessanti per il prossimo progetto, ma in questi mesi sono troppo presa da Pavese e dalle proiezioni in tutta Italia: appena la cosa finirà, volentieri mi metterò a ragionare su quali prossimi passi fare».