“Palazzo di giustizia” di Chiara Bellosi

È un film di piccoli gesti e piccole svolte, “Palazzo di giustizia“. Nonostante un titolo ampio e indefinito, che punta a universalizzare i fatti narrati ma rischia di respingere potenziali spettatori, l’opera prima nella finzione di Chiara Bellosi è incentrata su alcune ore di vita di persone direttamente collegate a un dibattimento in corso di svolgimento in un’aula del Palazzo.

La figlia adolescente del benzinaio rapinato che ha poi sparato, uccidendolo, a uno dei due ladri in fuga; la compagna del secondo rapinatore, divisa tra l’ascolto del processo e la custodia della figlia piccola, lasciata in corridoio. Nello stesso spazio un giovane addetto alla manutenzione compie il suo lavoro, inevitabilmente interagendo con la situazione.

Non solo il titolo, anche il tema è ampio (e assai dibattuto): quali sono i limiti della legittima difesa? Quanto è consentito reagire se minacciati? Cosa giustifica gesti estremi? Domande pesanti, cui Bellosi non è però intenzionata a rispondere: giusto che ognuno si cali di volta in volta nei panni dei diversi personaggi, così da capire che – una volta di più – la verità assoluta non esiste.

Sguardi, approcci, un passerotto inatteso, un piatto di pasta condiviso, due mani che si sfiorano, una gomma da masticare agognata, un paio di cuffie prestate, un termosifone rotto: l’elenco potrebbe continuare, ma raramente come in questo caso il risultato è di gran lunga superiore alla somma delle parti.

Pensato come un documentario ma trasformato in film dopo lunghe riflessioni con il produttore Carlo Cresto-Dina (che fece fare lo stesso percorso alla Irene Dionisio de “Le ultime cose”, ancora una volta girato a Torino), “Palazzo di giustizia” è affidato a giovani attori, tutti convincenti (dai più rodati Daphne Scoccia e Andrea Lattanzi alle esordienti Sara Short e Bianca Leonardi), ma ha un vero valore aggiunto nell’interpretazione di Nicola Rignanese, misurato e calibrato in ogni dettaglio.