Registe (a Torino): Adonella Marena

Nuova puntata di Registe (a Torino): ospite Adonella Marena.

Quando e come ti sei avvicinata al mondo del cinema?

Sono stata insegnante, intanto dall’83 all’87 facevo parte del “Gruppo Comunicazione Visiva”, con cui si divulgava attraverso rassegne annuali il cinema delle donne fino a quel momento inedito in Italia (da qui è poi nato il festival Cinema delle donne) .Questo mi ha stimolato a seguire una scuola di regia: il saggio di fine corso, nel 1990, è stato il mio primo cortometraggio, “Il Megalite”, con cui ho partecipato all’allora festival Cinema Giovani di Torino. Con questo primo approccio ho capito che mi interessava esprimermi con il cinema, e soprattutto con il cinema del reale. Ai tempi, bisogna ricordare, il documentario era considerato ancora da molti un genere di serie B, dove l’autorialità non era considerata, ma io ci vedevo tante possibilità espressive. Quello che considero il mio primo vero film è “Okoi e semi di zucca”, con cui ho provato a sperimentare proprio quelle possibilità.

Parlaci di questo lavoro (visibile qui). 

Nel 1994 vinsi il primo premio del Concorso Spazio Torino al Festival Cinema Giovani con “Okoi e semi di zucca”, una storia cui tengo perché sono riuscita a mettere insieme un’esperienza forte con la libera occasione di rappresentarla. La storia è ispirata totalmente ad un’esperienza vissuta da me in un gruppo di donne migranti di diversa nazionalità, in particolare quattro cuoche itineranti fantasiose e litigiose, conosciute durante un percorso di formazione al lavoro. È un misto tra documentario e autorappresentazione, nato dopo quattro anni di vita vissuta, condivisioni e anche duri contrasti. La necessità di raccontare il mio punto di vista si risolveva attraverso l’azione della protagonista. Ho sempre messo il mio sguardo, personale e femminile, quindi consapevolmente soggettivo, al servizio dei temi che volevo raccontare. Non ho mai amato la vecchia teoria dell’oggettività del documentario.

Una caratteristica tipica dei tuoi lavori è sempre il tuo coinvolgimento nel racconto.

Sì, quando lavoro a un film entro molto dentro la storia, i miei sono tutti film “dall’interno”. Anche nei casi in cui sono stati fatti su commissione, ho potuto scegliere di raccontare storie che mi interessavano in prima persona. Per questo alcuni temi ritornano: i percorsi delle donne, i migranti, i movimenti antagonisti (in particolare il notav), la memoria , gli animali…

Un lavoro a cui tieni moltissimo è “Facevo le Nugatine” (visibile qui). 

Quello è stato davvero il frutto di un momento magico: “Facevo le Nugatine” l’ho girato nel 1996, è un piccolo corto legato alla storia dell’ex-fabbrica Venchi Unica di Torino, ormai abbandonata, “rivissuta” da un ex-operaio, Walter, che ho portato in giro per i vecchi capannoni dismessi. Vinse lo Spazio Italia e la menzione speciale Premio Cipputi al Torino Film Festival, e altri riconoscimenti in Italia e all’estero. Un racconto breve che ha fatto lunga strada.

Negli ultimi anni cinematograficamente hai lavorato meno, come mai?

Sì, nel 2011 ho realizzato “Lo Sbarco” (visibile qui, NdI) ma negli ultimi tempi, oltre ad alcuni problemi personali, mi sono dedicata anche ad altro, ho lavorato molto a eco-eventi sul tema della difesa degli animali, anche insieme al festival Cinemambiente (con cui collaboro da molti anni) . Ho poi girato un corto, “Lune Storte, Storie dal Manicomio di Collegno“, nel 2017.
I miei film sono stati a volte complessi da organizzare produttivamente (problema di tutti i documentaristi) , ma mi sono quasi sempre mossa in modo indipendente e autonomo. Qualche volta grazie ai premi vinti da un documentario in giro per festival ho potuto realizzare il film successivo: il successo di “Facevo le Nugatine”, ad esempio, mi ha permesso di lavorare in pellicola al film seguente, “La Combattente” (visibile qui, NdI).

In queste settimane di lockdown sei riuscita a lavorare su qualche progetto?

In questo difficile periodo, che ha confermato – se ci fosse stato bisogno – l’impatto negativo che l’umanità ha e continua ad avere sul pianeta e il suo habitat, ha ancor più trovato conferma un progetto di documentario a cui tengo da molto tempo, la cui ispirazione parte da lontano. Già nel 1999 ho girato un documentario didattico, “La Fabbrica degli Animali” (visibile qui, NdI), che raccontava (primo in Italia) la tragedia degli allevamenti industriali. Mi ha rivelato un mondo sconvolgente, dove l’equazione sfruttamento/profitto non aveva limite. Così oggi vorrei sviluppare un tema difficile, ma necessario: il rapporto violento che noi umani, sapiens, abbiamo creato con gli altri viventi. La nostra pretesa di dominio sulle altre specie, che ci porta visibilmente, se non siamo capaci di “ripensare la natura” ad un percorso senza meta.