Nuova puntata di Registe (a Torino): ospite Francesca Frigo.
Quando hai deciso di voler lavorare nel cinema?
Sono nata e cresciuta nella periferia nord di Roma, al decimo piano di un palazzone di 16. Un tranquillo quartiere dormitorio, lontano dalle magiche atmosfere del lungotevere. Forse per cercare un po’ di poesia ho studiato cinema e teatro all’università, Arti e Scienze delle Spettacolo, l’equivalente del DAMS che proponeva al tempo la Sapienza.
Il primo anno era comune per i vari indirizzi e mi ricordo di essermi iscritta a tutti i laboratori possibili e immaginabili per sperimentare e capire davvero cosa stessi cercando, inizialmente soprattutto a quelli sul lavoro dell’attore. Recitare mi intrigava, qualche docente mi aveva persino incoraggiato ad approfondire, ma intravedevo nell’attitudine sognante dei miei colleghi di teatro qualcosa che strideva con il mio innato, e a volte cinico, pragmatismo.
Come hai imparato il mestiere?
Al secondo anno scelsi cinema, ma la teoria non mi bastava e volevo fare esperienza sul campo. L’occasione arrivò quando un mio compagno di corso, Francesco Ciccone, mi chiese di unirmi alla sua troupe per girare il suo primo corto. Francesco aveva come me 21 anni ma già esperienza nel cinema, aveva fatto il video-assist per il film di Riccardo Milani “Il posto dell’anima” e aveva una conoscenza tecnica impressionante della fotografia per il cinema, dei ruoli e del funzionamento del set. Con la sua determinazione quasi maniacale e il suo carisma da regista kubrickiano, era riuscito a creare dal nulla una troupe di studenti iper-professionale con un reparto fotografia pazzesco. Io sono stata la sua assistente per qualche anno. Oltre ai suoi progetti abbiamo curato la fotografia di tantissimi cortometraggi, videoclip, video installazioni, un lungometraggio.
Erano gli anni dell’esplosione del cinema digitale e per giovani amanti del cinema come noi al tempo si aprivano molte possibilità di lavoretti. Ho fatto tantissima esperienza, soprattutto con la camera e la fotografia ed è stato importante per me, il set mi ha temprato. Però percepivo che qualcosa mi mancava. Sentivo di voler partecipare di più al processo creativo. Così a 24 anni, non senza una certa sofferenza, ho lasciato i miei amici del reparto fotografia e il mio Dop e mi sono rimessa in gioco. Non sapevo esattamente cosa volessi, ma alla fine sono arrivata dove dovevo arrivare. Vista la mia abilità con la telecamera e la mia esperienza con il racconto per immagini, un regista piemontese che lavorava a Roma, Pietro Balla, insieme a Mauro Parissone dell’Agenzia H24, mi propose di lavorare come filmmaker per un documentario per la tv e seguire il lavoro di un medico legale della polizia scientifica di Napoli. Mi si apriva un mondo: lavorare da sola sul campo, filmare la vita vera, raccontare in prima persona una storia.
Di cosa ti sei occupata in quegli anni?
Passare dai set di finzione a filmare i sopralluoghi sulla scena di veri omicidi è stato un battesimo del fuoco, un’esperienza incredibile dalla quale sono uscita provata ma anche più forte. Dopo questo lavoro ne ho fatti molti come filmmaker per H24 destinati alla tv, sempre sola sul campo su storie ad alta intensità. Poi la prima stagione di MTV NEWS, una serie di brevi documentari sul mondo dei giovani, mandati in onda ogni giorno. In quegli anni ho girato centinaia di ore, raccontato moltissime storie e capito un’altra cosa importante nel mio rapporto con questo mestiere, che lavorare in quel modo, con ritmi forsennati e poca autorialità era di nuovo qualcosa che non faceva per me. La produzione nell’agenzia era divisa in reparti, chi filmava le storie sul campo non aveva nessun controllo sul montaggio, dividere per andare più veloci. Implicarsi con le persone per raccontare le loro storie, mettendoci la faccia non poteva risolversi in quel modo, mi sentivo una filmmaker mercenaria. Ma io una alternativa l’avevo conosciuta ed è lì che sono tornata a costruire il mio futuro. Subito dopo il lavoro di Napoli, Pietro Balla mi aveva proposto di salire a Torino per lavorare ad un documentario su storie di operai contemporanei per DOC3, era il 2007. La produzione esecutiva era in mano alla neonata società di produzione BabyDoc Film e dei due baldi Giovannone e Parena. Io dovevo affiancare Andrea Parena come filmmaker sul campo e Pietro avrebbe fatto il regista in remoto. Era ancora quella modalità di autore a metà che poi mi è stata definitivamente stretta, comunque da Pietro c’era da imparare ed è così che sono arrivata a Torino. “Operai” è stato un lavoro fondamentale per me, soprattutto perché con Andrea ed Enrico sentivo di poter dare un senso a tutte le esperienze che avevo messo insieme fino ad allora e provare e fare cinema del reale partendo da una visione, dall’ascolto e dal confronto, aspetti che fino ad allora mi erano mancati. Poi Torino nel 2007 era uno spettacolo, sembrava che tutto fosse possibile e pieno di senso.
Nel 2013 hai esordito alla regia con “Sanperè! Venisse il fulmine”: come hai capito che quello era il lavoro giusto con cui esordire?
“Sanperè!” era il progetto perfetto per la mia prima regia. Raccontare la storia di un gruppo di giovani richiedenti asilo mi sembrava fosse importante e urgente, avevo la possibilità di dedicare il giusto tempo per conoscere i personaggi e lavorare bene con loro e poi era un progetto interamente nostro, di BabyDoc Film. Non avevamo committenze e restrizioni, quindi potevo sperimentare trovando la forma di cinema che ritenevo più adatta. Credo di ricordare che furono anche Andrea ed Enrico a stimolarmi a prendere in carico il progetto all’inizio, avevano intuito che poteva essere nelle mie corde. Ci ho messo molto a lanciarmi con una mia opera perché ho sempre avuto paura di non essere pronta, e credo avessi ragione.
“Sanperé!” è arrivato al momento giusto. È un piccolo film ma offre una visione abbastanza unica su quella storia, con uno stile preciso che restituisce in maniera efficace il lungo percorso di ascolto e condivisione con i protagonisti del film. Ne sono pienamente soddisfatta e partecipare con quel documentario al TFF è stato importante per me. Avrei voluto farlo girare di più, ma sulla distribuzione in quegli anni non eravamo molto preparati.
Poi ti confesso un piccolo segreto, a fine 2008 ho girato e montato un piccolo film, il racconto degli ultimi giorni di lavoro di mio padre, un uomo che si nutriva di lavoro e del ruolo che questo gli offriva, fino al momento in cui è diventato un pensionato. Avevo l’ambizione che quella storia di passaggio avesse un valore universale oltre che personale. Non lo ha mai visto nessuno, magari se un giorno divento famosa ve lo farò vedere!
Da anni sei attenta produttrice: come hai iniziato in questo mestiere?
Qui mi ricollego a quanto raccontato prima. Incontrare Andrea ed Enrico e la loro BabyDoc Film per me è stato trovare casa. Una casa del cinema e una casa vera, perché poi a Torino mi sono trasferita e di BabyDoc Film sono diventata socia. Produrre con BabyDoc Film è un lavoro in continuità con quello di fare l’autrice, significa essere dentro ad ogni progetto perché si è scelto di farlo e portarlo avanti implicandosi tutti insieme, con la testa e con il cuore. Ha significato produrre cinema con la libertà di rispondere solo a noi stessi, ai nostri personaggi e al pubblico, più avanti mantenere la propria identità pur facendo i conti con un mercato che ti deve conoscere ed accogliere. E comunque produrre, per me che non sono un produttore puro, significa mettersi in gioco dando quello che posso in ogni singolo progetto, che sia la fotografia come in “Nozze d’Agosto”, la regia in “Sanperè!” o la produzione in “Pietro”.
Il tuo nuovo lavoro da regista, “Goleador”, è ora fermo causa Covid. Cosa ci puoi dire, per il momento, del progetto?
Se dai set di finzione, reparto fotografia, sono partita per poi lasciarlo e scoprire una passione per il cinema del reale, dopo tanti anni ho iniziato a sentire l’esigenza di avvicinarmi alla scrittura di finzione. Non possiamo esplorare tutti i territori narrativi con il documentario e, ad un certo punto, ti rendi conto che non è nemmeno giusto farlo. Io e Andrea stiamo portando avanti dei progetti di finzione e “Goleador” è uno di questi. Il film nasce dalla lunga frequentazione con una squadra di calcio composta da ragazzi con disabilità intellettiva e relazionale, il Valsusa team FD e dalla volontà di fare un film con loro. Insieme a Evandro Fornasier abbiamo scritto una sceneggiatura che ci permettesse di sollevarci dal piano della realtà per spostarsi in una terra di confine tra il possibile e l’impossibile, e così liberare noi e i ragazzi della squadra, che saranno gli attori principali del film. Con i giocatori da settembre avevamo iniziato un laboratorio attoriale per prepararci alle riprese che avremmo dovuto fare proprio in questo periodo. Purtroppo ci siamo dovuti fermare e interrompere questo lungo lavoro di avvicinamento al set. Non sappiamo quando potremo riprendere il filo del discorso.
Visto il numero di persone coinvolte, tra attori e troupe, temo che dovremo ancora aspettare un po’, fino a quando la situazione-Covid non si sarà stabilizzata.
In questi mesi sei riuscita a lavorare? Come stai vivendo questo periodo complesso?
A livello personale ho vissuto in maniera traumatica soprattutto le prime settimane, mi sentivo fragile e facevo fatica a trovare serenità in casa. Poi le cose sono migliorate, abbiamo trovato i nostri equilibri e anche le bambine sono diventate una fonte di energia positiva. Per quanto riguarda il lavoro, per fortuna avevamo dei progetti avviati e siamo riusciti a portare avanti almeno una parte di scrittura, preparazione e fundraising, anche da casa. Compatibilmente con l’impegno delle bambine ho cercato di mantenermi mentalmente attiva e concentrata sul lavoro. Ovviamente il disagio c’è stato, per i progetti sospesi e tutte le riprese rinviate. Speriamo di riuscire a tornare sul campo a filmare tra giugno e luglio, almeno alcuni documentari in produzione, se staremo fermi ancora molto comincerà ad assere un problema.