Registe (a Torino): Rossella Schillaci

Nuova puntata di Registe (a Torino): ospite Rossella Schillaci

Ti sei formata alla scuola di Daniele Segre, I Cammelli: cosa ti aveva spinto a frequentarla?

All’Università studiavo sia antropologia che cinema. Ricordo che in quel periodo fu per me fondamentale vedere le proiezioni di un piccolo festival, il Festival del Cinema delle Donne, mi pare si chiamasse così. Era lì che avevo visto per la prima volta dei film documentari ‘recenti’, film molto intensi su storie di donne e di uomini poco raccontate. Ricordo ancora come fosse oggi un magnifico documentario su una donna che viveva da sola in montagna, facendo la pastora. Parlai con la regista, che mi spiegò che aveva studiato antropologia visiva e che l’approccio utilizzato per quel film prendeva spunto proprio dal metodo antropologico. Per me è stata una doppia scoperta: sia verso il mondo dei documentari, sia per l’antropologia visiva, che mi permetteva di coniugare le mie due grandi passioni.
Sempre parlando di festival, avevo visto anche i primi documentari di Daniele Segre, in particolare il bellissimo “Dinamite”, credo al Torino Film Festival. Avevo poi saputo che la scuola di Segre, I Cammelli, aveva indetto un bando di concorso per frequentare un corso annuale per ‘autori video-cinematografici’. Non solo la scuola era gratuita, ma, grazie ad un finanziamento europeo, veniva offerto ai partecipanti un rimborso spese mensile. Era l’unica scuola di cinema che potevo permettermi di frequentare a tempo pieno. Ma è stata la scelta più azzeccata: l’insegnamento più grande che abbiamo avuto da Segre è stato quello che per realizzare buoni documentari sociali non occorrevano grossi finanziamenti, bastavano piccole videocamere e microfoni semi-professionali, e poi lavorare bene (e sodo) sulle proprie idee, essere tenaci (molto tenaci).
Ho frequentato la scuola con Enrica Viola, Arianna Felicetti, Roberta Ravazzoni, Matteo Bellizzi, Caterina Dal Molin, e tanti altri. C’è stata voglia di sperimentare, collaborando tra noi. Ci siamo aiutati a vicenda, sia durante che dopo il corso. Proprio grazie alla collaborazione con alcuni miei compagni, avevo girato un breve documentario su un corso di italiano presso il Campo Rom di Torino. Quel piccolo film era parte della mia tesi di laurea (ero anche riuscita a mostrarne alcuni minuti durante la discussione!). Poi ho scoperto che c’era un Master di regia del documentario e antropologia visiva in Inghilterra. Era esattamente quello che volevo fare. Grazie ad una borsa di studio ho potuto frequentare senza pagare le tasse di iscrizione, che erano carissime. Ed ero stata selezionata anche grazie a quel piccolo film che avevo fatto con i miei compagni di corso.
Tutto questo lungo discorso, per dire quanto siano stati importanti per me (e credo che lo siano tutt’oggi per tanti giovani) tutti i festival, le scuole, le università e gli eventi culturali che permettono di scoprire nuovi percorsi. E quanto siano fondamentali gli aiuti e i sostegni allo studio e alla formazione. Penso sia importante ribadirlo ora, in tempi di crisi, per mantenere in vita tutte le iniziative culturali, i festival, gli scambi europei, le collaborazioni tra istituti e persone, per la crescita di professionisti e di tutto il settore culturale.

Nella tua filmografia ci sono molti titoli. Quale consideri il tuo vero “esordio” (in senso autoriale e produttivo)? 

È difficile rispondere, ogni progetto è in qualche modo unico, sia per i temi affrontati che per le modalità di realizzazione, artistiche e produttive. Ed è interessante notare come per ogni progetto bisogna ripartire quasi sempre da capo, per cercare le collaborazioni e i finanziamenti giusti, e spesso diventa sempre più faticoso.
Se devo scegliere un progetto, credo che quello per me particolarmente intenso è stato quello che ha dato vita a due film documentari, “Altra Europa” e “Il limite”, ma anche ad una mostra fotografica e ad alcuni cortometraggi, uno dei quali commissionato da Al Jazeera (“Shukri, a new life”). Un progetto molto lungo che è nato grazie alla collaborazione di molte persone, tra cui Fulvio Montano, Mattia Plazio, Giulio Pedretti, Chiara Ceolin. Insieme abbiamo dato vita prima ad un’associazione culturale e poi ad una realtà produttiva, la Azul, con la quale abbiamo realizzato in seguito molti altri progetti. È stata un’esperienza entusiasmante, anche dal punto di vista produttivo.
Ho collaborato con una società siciliana, Clac, e abbiamo avuto il sostegno di due Film Commission, quella siciliana e quella piemontese. Allora il loro apporto è stato fondamentale, anche perché hanno creduto nel progetto quando ancora non c’erano altri finanziamenti certi. Proprio grazie al loro supporto, siamo in seguito riusciti a trovare tutti i fondi necessari per proseguire, e gli appoggi delle televisioni. Il ruolo delle Film Commission regionali nel sostenere progetti ancora in fase di sviluppo credo sia importantissimo.
Inoltre, soprattutto grazie a quel grande progetto ne è nato un altro, di dimensioni completamente diverse: mio figlio. Ho iniziato a montare il documentario, “Altra Europa”, quando avevo il pancione, e l’ho terminato parecchi mesi dopo, grazie ai montatori Dario Nepote e Fulvio Montano, che hanno lavorato a casa, per permettermi di allattare tra una sequenza e l’altra! È stato fondamentale trovare nuove soluzioni ‘creative’ e collaborative, per portare avanti la maternità e il lavoro contemporaneamente.

La tua carriera è decisamente orientata verso il documentario sociale, anche come produttrice. Come scegli i tuoi temi?

Le idee per realizzare i miei documentari sono nate quasi tutte da un incontro. Si è creata spesso un’occasione fortuita, che però si collegava a tutto il mio percorso, ai precedenti lavori o ad una semplice ricerca personale. Per esempio l’idea per realizzare “Altra Europa” è scaturita dall’incontro con delle giovani donne somale che avevano occupato una vecchia clinica abbandonata, vicino a casa mia. Ho poi iniziato a frequentare quel posto con una fotografa, ed è nato tutto il progetto, che ci ha portato poi anche in Sicilia per realizzare “Il limite”, anche se le idee iniziali si sono poi dovute adattare e modificare in base alle circostanze.
Nel caso di “Ninna Nanna Prigioniera” avevo scoperto per caso della possibilità concessa alle madri detenute di vivere in carcere con i propri figli piccoli, e questo proprio mentre frequentavo dei corsi con mio figlio. Da lì è iniziato per me un lungo processo di ricerca, che partiva da alcune domande sulla maternità, anche personali. Per “Libere” invece tutto è iniziato da un incontro con Paola Olivetti, che dopo aver visto “Ninna Nanna” mi ha proposto di lavorare ad un progetto sulle donne che avevano partecipato alla Resistenza, per sviluppare un racconto tutto al femminile. Questo è il primo film che ho realizzato utilizzando quasi interamente materiale d’archivio, e devo dire che è stata una bellissima esperienza di ricerca, questa volta nella storia, e nelle interviste di donne straordinarie che non c’erano più. Ho cercato di rispettare il loro punto di vista, e di valorizzarlo il più possibile, considerando che le loro testimonianze sono davvero preziose ed emozionanti. Sono donne che hanno tanto da insegnare. Dal punto di vista produttivo c’è stata una bella collaborazione con Azul, l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza e con Lab 80 film, che poi l’ha distribuito in tantissimi cinema italiani.

Stiamo vivendo un periodo complesso, per molti motivi: come vedi il documentario ai tempi del coronavirus? Cambia, almeno per ora, anche il modo di arrivare al pubblico, con lo streaming in prima fila: come stai vivendo questa situazione?

Durante questa quarantena ho visto tantissimi film e documentari, che mi hanno aiutato a superare questo confinamento. Ma la cosa per me più bella è stata quella di aver avuto modo di vedere dei documentari che, al tempo della loro uscita, mi ero persa. Decine di documentari, girati anni fa, ma che trovo fondamentali ancora oggi, come “Last call-Ultima chiamata”, “Là suta”, “L’estate che verrà”, “I nostri anni”… film d’autore, documentari sulla Resistenza o su Chernobyl, solo per citarne alcuni.
Come è stato anche detto dal nostro primo ministro, gli autori e gli artisti in questo periodo ci hanno intrattenuto, ma soprattutto le opere che ho visto io mi hanno aiutato a capire e riflettere sul presente. Questi film sono stati in sala per troppo poco tempo. E in tanti casi non sono stati mai trasmessi dalle TV. Vengono presentati magari un paio di giorni in alcune città, o durante i festival, che di nuovo riconfermano il loro importante ruolo di promotori e distributori culturali. Ma raramente c’è una distribuzione prolungata nei cinema. Perché deve essere così difficile poter diffondere questi lavori? Per esempio “Ninna Nanna Prigioniera”, che ha avuto anche parecchi fondi pubblici e ministeriali, non è stato mai distribuito nelle sale, se non in qualche festival che ringrazio ancora per l’attenzione.
In questo periodo, grazie a Open Dbb, è stato trasmesso in streaming, e so che è stato visto da tantissime persone. Così come “Libere”, che ha invece avuto una buona distribuzione in un circuito di sale indipendenti (circa 60) e nelle scuole, grazie a Mymovies è stato visto da circa 1000 persone in una sola serata e molte altre ne hanno chiesto la trasmissione in TV.
Qui si apre una riflessione particolare su questo periodo eccezionale che stiamo vivendo. Arundhati Roy, scrittrice e attivista indiana, ha scritto un bellissimo articolo intitolato ‘La pandemia è un portale’. Sostanzialmente questo periodo pandemico ci ha anche offerto un’opportunità: quella di fermarci per poter capire a fondo il nostro tempo, e il nostro mondo. Per molte persone è come se si fosse alzato un velo, e ognuno abbia potuto capire meglio alcuni aspetti della propria vita, intimi o collettivi. Abbiamo potuto verificare lo stato penoso della nostra sanità pubblica, quando invece si pensava fosse una delle migliori in Europa, sono emersi i problemi della scuola italiana, la stessa ministra dell’Istruzione si è accorta solo ora – grazie alla pandemia – che in Italia ci sono ‘classi-pollaio’. E poi c’è la riflessione – ancora aperta – su tutto il mondo della cultura, delle arti, del cinema, dello spettacolo dal vivo, della musica. Tutti settori (chi più chi meno) che forse erano già in gravi difficoltà anche prima, ma che riuscivano a procedere grazie alla dedizione (e in certi casi all’abnegazione) di molti artisti e operatori della cultura. Siamo sulla soglia di un portale: su quale mondo nuovo vogliamo affacciarci? A quali aspetti o settori della nostra vita pubblica, culturale, sociale, politica vogliamo dedicare energie, per trasformarli, dando loro un po’ di linfa vitale?
Ritornando allo streaming, credo che si debba davvero ringraziare tutti gli autori che hanno messo a disposizione i loro lavori e tutti coloro che hanno creato piattaforme in pochissimo tempo, lavorando tanto, immagino anche con pochissimi fondi a disposizione. Aiace sul sofà, Streen, Open ddb, Lab 80 film, Mymovies, festival, cineteche, archivi… E sono sicura di dimenticarne moltissimi. Sono stati davvero tanti. E le visualizzazioni credo abbiano superato ogni aspettativa.
Dal 15 giugno pare che si possa tornare al cinema e al teatro. Non vedo l’ora di poterci tornare, e rivivere quella esperienza immersiva così importante per me. Ma le condizioni sono giuste per tutti i professionisti che fanno questo lavoro, oppure, se già vi erano gravi problemi prima, ora avranno ancora più difficoltà di prima? Credo sia necessario cogliere le opportunità di questo tempo eccezionale, e chiedere profondi cambiamenti, inventandosi soluzioni innovative, ma soprattutto rispettose di tutti quei professionisti che tengono in piedi, a volte sostenendo pesi enormi, il mondo del cinema, della cultura, ma anche della scuola, della ricerca e dell’Università.