“Un documentario in carcere, un progetto molto diretto, frontale”

Articolo di Carlo Griseri

Bruno Oliviero sarà ospite del cinema Massimo giovedì 1 luglio alle 21, per presentare in occasione dell’apertura del bando di LiberAzioni – su invito dell’Associazione Museo Nazionale del Cinema – il suo documentario “Cattività“, che racconta l’esperienza unica del teatro per un gruppo di detenute del carcere di Vigevano. Un film pronto dal gennaio 2020, che doveva esordire lo scorso anno al Bergamo Film Meeting (poi annullato causa pandemia) e che solo ora ritrova il grande schermo.

Come si è avvicinato a questo tema?
In verità mi sono avvicinato al regista Mimmo Sorrentino, mi interessava perché ho una storia di documentarista passato alla finzione (come regista e come sceneggiatore), sempre però raccontando storie vere, accadute, molto documentate. Lui fa le stesse cose con il teatro, partendo dalla realtà: quando ha iniziato ad andare in carcere per questa esperienza, avevamo già lavorato insieme per il mio film “Nato a Casal di Principe”, in cui mi ha aiutato con gli attori e la loro preparazione.
Questo suo progetto teatrale con le donne di mafia ho pensato subito fosse da raccontare, è molto “cinematografico”. Non mi interessava tanto che si svolgesse in carcere, di film e documentari sul tema ce ne sono stati tanti, anche di eccellenti: mi interessava di più il momento che vivevano queste donne, la loro trasformazione (da mogli o figlie di criminali, o loro stesse mafiose), esserci nel momento in cui grazie a questo progetto trovavano un seme che la mafia non aveva rubato. Rivivendo la loro infanzia e i primi fatti di sangue a cui hanno assistito disegnavano un percorso di consapevolezza e forse di redenzione, che spesso nei film tendiamo a creare. Qui  invece accadeva veramente.

Come ha lavorato sul tema, consapevole anche come detto degli altri lavori già noti?
Non ho cercato l’originalità perché mi sembrava un altro oggetto quello che stavo filmando, di solito si raccontano detenuti o detenute che mettendo in scena un testo operano una sorta di catarsi e si mostra questo processo di costruzione di un “nuovo impegno”, che sono persone capaci di fare altro che i criminali.
Noi invece entravamo nella storia criminale, non le vedevo come detenute, lo erano solo occasionalmente: erano persone fortunate per avere incontrato qualcuno che iniziava a smuovere qualcosa dentro di loro, qualcosa che riguardava loro stesse. Non eravamo di fronte a capolavori del teatro – come in “Cesare deve morire”, ad esempio – qui sono le loro esperienze che diventano letteratura.

Questa esperienza cambierà il modo in cui racconta le sue storie?
Sicuramente cambierà il mio modo di creare le storie, per me è un ulteriore film di passaggio. Con “Cattività” sono tornato al documentario dopo un po’ di anni lontano, è stato un progetto molto diretto, frontale, filmavo le cose mentre avvenivano.
Questo ha rimodellato il cinema che vorrò fare, voglio tornare alla semplicità e alla volontà di essere più diretto, che avevo un po’ dimenticato. Mi sento più affine a questo modo di lavorare. Ho capito una volta per tutte che si può costruire un cinema che sia radicale ma anche molto diretto, semplice, espressivo.

Su cosa sta lavorando ora?
Da “Cattività” è “nato” un film che ho scritto con Leonardo Di Costanzo, che lo dirige: si chiama “Ariaferma”, è ambientato in carcere ed è nato da un percorso parallelo. Nel cast ci sono Toni Servillo e Silvio Orlando: è un film particolare drammaturgicamente, tiene conto di questa esperienza.
Inoltre sto preparando un mio film da una storia vera, su un ragazzo adottato che vuole tornare in Etiopia, parte dal nord Italia da solo a 13 anni per arrivare a Lampedusa. Un viaggio al contrario. Anche qui sarà una narrazione complessa: voglio mostrare persone che in modo molto sincero e diretto si mettono alla ricerca della loro identità smarrita. Ho finito di scriverlo, stiamo cercando i finanziamenti.