Tsai Ming-liang: “A Torino mi sento a casa”

Tsai Ming-liang è a Torino, ospite del Museo Nazionale del cinema per una masterclass e per due proiezioni, in attesa della retrospettiva completa dei suoi lavori prevista a gennaio.

QUI TUTTI I DETTAGLI SULLA DUE GIORNI DI TSAI MING-LIANG A TORINO

«Sono già stato anni fa – ci spiega l’autore asiatico nell’incontro privato avuto con lui – a visitare il Museo del cinema, ricordo bene la sensazione di visitare la speciale architettura della Mole Antonelliana: da allora chiedo sempre a tutti coloro che vengono qui se l’hanno visitato, è un posto incredibile. Tornare qui è stato come sentirmi a casa, a questa città devo molto: nel 1993 con il mio film d’esordio, I ribelli del dio neon, ho vinto al Festival Cinema Giovani il mio primo riconoscimento in Occidente. Ero a Taipei quando ho avuto la notizia, è stato bellissimo: allora direttore del festival era Alberto (Barbera, NdI), mio grande amico, gli mando sempre i miei nuovi lavori per andare a Venezia, credo di essere il regista asiatico più presente in assoluto alla Mostra!». 

Martedì sera verrà proiettato al cinema Massimo Goodbye, Dragon Inn, una lettera d’amore al cinema inteso anche luogo fisico. «Fino agli anni ’80, noi tutti abbiamo vissuto i cinema come luogo di divertimento, sono stati un luogo fisico di intrattenimento, in tutto il mondo. Abbiamo anche una memoria collettiva legata ai cinema, in cui siamo tutti insieme a guardare un unico film: erano tutte strutture monosala, ma da tempo ormai questi posti hanno iniziato a sparire, non servono più, vengono demoliti. Nella piccola città malese in cui sono cresciuto ce n’erano dieci, un tempo! E’ un peccato, tutti noi abbiamo la memoria carica di ricordi legati a questi luoghi, siamo stati a vedere film con genitori, fidanzati… ognuno di noi ha un legame emotivo diverso, e privato. Ora i cinema sorgono nei centri commerciali, ed è impossibile colmare quel vuoto che si è creato: un deposito di memorie è svanito, per sempre».

Tsai ming-liang è un fautore del cosiddetto “slow cinema”. «Mi viene naturale, istintivo: non riesco a essere veloce, io quindi rallento. Spesso mi sento fuori dalla realtà, dalla velocità del mondo reale, non riesco a seguire il ritmo di quest’epoca, sento anche un po’ di panico verso il futuro ma so che ho già vissuto gran parte della mia vita! Sono molto consapevole che il mio cinema non è accettato dal grande pubblico, solo da una piccola parte di esso, ma per me è più importante la mia libertà».

Impossibile non chiedergli qualcosa sul suo concetto di tempo nei suoi film. «Le mie sceneggiature sono sempre semi-aperte, poi mentre giro trovo automaticamente il percorso da fare fino al finale. Quanto dura una mia sequenza? Non lo so prima, non l’ho mai programmato. Ma vengono sempre lunghe, perché non dò mai lo stop a fine riprese, una volta che gli attori finiscono di fare le cose che gli ho detto in una determinata scena sono convinto che escano le cose migliori. Non seguo un ritmo prestabilito neanche al montaggio, vado avanti come mi viene».

Spesso paragonato a Bresson, quali ispirazioni cinematografiche ha avuto nella sua vita? «La Nouvelle vague mi ha aperto una finestra sul cinema, prima avevo visto solo cinema commerciale, ma anche il nuovo cinema tedesco, come quello di Fassbinder. Senza dimenticare l’Italia: il primo film europeo visto nella mia vita, quando ancora ero in Malesia, è stato I girasoli di De Sica con la mia attrice preferita, Sophia Loren. Ancora mi chiedo come abbia potuto arrivare questo film in un cinema del mio paesino…».

Dal 2011 a oggi ha iniziato la serie Walker, interpretata dal suo attore feticcio Lee Kang-sheng. «Lavoro sempre con lui, tra noi ci sono 11 anni di differenza, mi sembra di vedere me stesso più giovane. Si dice che il mio cinema sembra un lungo documentario su Lee che invecchia? E’ vero! Ma è un’idea che mi è venuta dopo aver fatto insieme il quinto film… Oggi mi sembra di essere in attesa che lui invecchi ancora per continuare questo documentario! La serie Walker è nata girando per il mondo, vedendo che le grandi città sono sempre più uguali: dovevamo fare uno spettacolo teatrale in cui Lee doveva camminare lentamente da una parte all’altra del palco. Ho scoperto che adoro come cammina! E allora lo sto facendo camminare in tutto il mondo, al Centre Pompidou di Parigi ho appena realizzata un’installazione con tutte e nove queste camminate, sono molto felice».

Articolo di Carlo Griseri