Martedì 6 dicembre, ale ore 17.30, si è tenuta la Masterclass di Tsai Ming-liang presso la Sala del Tempio del Museo Nazionale del Cinema.
Il maestro della new wave taiwanese visita Torino dopo aver vinto col suo esordio Rebels of the Neon God il Festival Cinema Giovani del 1993 ed aver visto la città successivamente, seppure abbia specificato di non ricordare quando con precisione. In primo luogo ha ricevuto la Stella della Mole dalle mani del direttore Domenico De Gaetano. Poi, durante l’incontro moderato da Grazia Paganelli, ha commentato con generosità alcuni estratti dai suoi film che hanno così guidato i presenti in un percorso nel suo cinema.
«All’inizio credevo che fare film sarebbe stato solo un mestiere, poi ho capito che poteva essere un mezzo artistico tramite il quale esprimermi pienamente». Prima tappa del fitto dialogo ha riguardato l’uso del corpo nelle sue pellicole. «Mi piace osservare i mutamenti che il tempo impone al corpo umano, non solo nel processo di invecchiamento ma anche in termini di malattia». È risaputo che Lee Kang-sheng, attore feticcio di Tsai, soffre da trent’anni di un disturbo alla schiena che ne limita i movimenti e gli procura molto dolore. Nel 2013, all’uscita del lungometraggio Stray Dogs, il Nostro aveva annunciato che non ce ne sarebbero più stati.
«Infatti il successivo e mio più recente, Days, nasce dall’urgenza di mostrare Kang-sheng mentre lotta contro la sua condizione, vivendola in totale solitudine». Quasi una sorta di documentario sull’amico attore, comunque in continuità con quello Slow Cinema già sperimentato in passato e perfettamente intrecciato col progetto Walker che sta portando avanti nell’ultimo decennio proprio con Lee come protagonista. «Il tempo per me rappresenta lo scorrere della vita e, a volte, un’immagine ferma crea un’ambiguità che a mio parere è molto più reale di quello che nell’industria viene chiamato ritmo narrativo».
A un certo punto, tuttavia, alla documentazione del vero si è affiancato il gusto per l’onirico e in particolare un riferimento al musical come genere evasivo. «Semplicemente ho realizzato che il mio racconto realistico poteva apparire freddo e crudele e così ho provato ad ammorbidire lo stile». In seguito, si è parlato della forte presenza dell’acqua nelle sue storie – «Non possiamo vivere senza!» – e dei finali che non sono fini ma lasciano sempre interrogativi su cosa accadrà ai personaggi: «La macchina da presa è come un bisturi e io seziono le persone per osservare, ma non do mai risposte».
Infine, il rapporto sempre più stretto di Tsai Ming-liang con il mondo delle gallerie d’arte. Il regista fu contattato da un curatore nel 2007 per partecipare alla Biennale di Venezia e da quel momento non ha mai smesso di indagare le modalità con cui operare fuori dalle sale cinematografiche. «Mi considero un pittore e quando realizzi un quadro non si sa mai dove inizia o finisca l’opera… a volte non è chiaro nemmeno che cosa tu stia raccontando». In serata, il regista ha presentato Goodbye, Dragon Inn a vent’anni dall’uscita in una gremita e palpitante Sala Soldati del Cinema Massimo.
Articolo di Alessandro Amato