Joao Nuno Pinto è ospite di Agenda Brasil a Torino per presentare (sabato 6 maggio alle 20.30) il suo film “Mosquito“. Nel 1917, mosso dallo spirito di avventura e dall’ideale di difendere la patria, il giovanissimo Zacarias si arruola volontario nell’esercito portoghese durante la Prima Guerra Mondiale e viene inviato a combattere in Mozambico. Rimasto indietro rispetto al suo plotone, in preda a continui deliri causati dalla malaria, inizia una lunga marcia solitaria, tra i costanti pericoli della savana, gli indigeni ostili e i nemici tedeschi, alla ricerca dei compagni d’arme e inseguendo i propri sogni di gloria.
Tu sei nato in Mozambico, la storia del film viene da ricordi familiari?
«Sì, il padre di mio padre visse una storia simile. Non l’ho mai conosciuto, mio padre era il più giovane di sette figli, io sono il più giovane di quattro… come età avrebbe potuto essere mio bisnonno! Quando era ragazzo andò in guerra in Mozambico e visse una storia simile (la malaria, l’essere lasciato indietro dal suo plotone…) ed è il motivo per cui la mia famiglia è rimasta lì e io stesso sono nato in quel Paese, anche se mi sento europeo e sono bianco. Per me è stata quasi una terapia girare questo film, per capire cosa successe davvero. In Portogallo abbiamo una visione quasi romantica del nostro passato coloniale: in quanto prodotto dal colonialismo, sentivo la necessità di mostrare la verità».
Come hai lavorato su questa storia?
«E’ stato necessario un lungo lavoro di ricerca, ho scoperto che ci sono pochissimi libri, pochissimi studi sulla guerra in Mozambico durante il primo conflitto mondiale. Per noi portoghesi fu un completo disastro, a cominciare dal fatto che arrivammo impreparati, con uniformi adatte al freddo europeo e non al caldo africano… poi abbiamo avuto la sfortuna di combattere contro Paul von Lettow-Vorbeck, detto il “Leone d’Africa”, che inventò la ‘guerrilla war’ ed ebbe grandi risultati in Africa. Noi eravamo il lato più debole dell’allenza sul territorio e fummo distrutti. Dopo la guerra con la dittatura fascista di Salazar abbiamo nascosto questa pagina di storia, si voleva solo fare propaganda su di noi come grandi colonizzatori, sulla superiorità europea. Non ne sapevo nulla, ho pensato fosse importante parlarne, dire la verità per una volta».
Il tuo è un film di guerra in cui la guerra quasi non si vede.
«Il primo motivo è perché volevo fare un film pacifista e ritengo che una bella immagine la renda affascinante: adoro ad esempio “Apocalypse now”, ma penso che in qualche modo sia sbagliato estetizzare i combattimenti. Volevo fare il contrario. E poi perché questa è stata la vera storia di mio nonno, che dopo la malaria rimase indietro e poté solo immaginare la guerra, cercare di raggiungerla ipotizzando grandi lotte, grandi momenti che poi nella realtà scoprirà non essere mai avvenuti. Non sapeva quanto disastrosa fosse: noi spettatori siamo con Zacarias in tutte le scene, vediamo quel vede lui, capiamo quel che capisce lui (per questo nelle scene in cui parlano lingue che lui non conosce non ci sono i sottotitoli, ad esempio)».
Dove avete girato, e come? Il film è curatissimo a livello estetico.
«Abbiamo girato tutto in Mozambico, tranne la scena sulla nave in Portogallo. Ho avuto la fortuna di lavorare con uno straordinario direttore della fotografia, Adolpho Veloso. Abbiamo usato solo luci naturali, è un progetto molto low budget. Di notte abbiamo usato alcuni fuochi, le candele, le luci ad olio (che abbiamo un po’ modificato perché facessero più luce, ad essere onesto). Volevamo ricreare un’immagine realistica di quel periodo e di quel luogo. Ho percorso 5.000 km in Mozambico per trovare i posti giusti in cui girare, i luoghi ideali: dovevamo girare nel 2014, poi abbiamo dovuto rinviare più volte per l’instabilità politica prima e per le incursioni dell’ISIS dopo. Così ho dovuto riprogrammare tutto nel sud del Paese e non più nel nord, era una zona più sicura: ho dovuto però ricostruire tutto il percorso, essendo un road movie, trovare le location giuste… Ho lavorato e ri-lavorato a questo progetto più volte, a volte sembrava una maledizione! Ma sono andato avanti, anche grazie ai miei produttori».
Tra cui figura anche il grande Paulo Branco, uno dei più noti al mondo nel circuito festivaliero.
«Sì, Paulo ha visto il mio primo film, “America”, e mi ha contattato dicendo che voleva lavorare con me. Gli ho dato da leggere allora le prime idee di questo progetto e lui ha capito l’importanza della fase di ricerche sul posto, che ha reso possibili da subito: quando Zacarias arriva in Mozambico ha un punto di vista eurocentrico, ma con l’andamento della storia lui cambia, dovevo entrare nella filosofia del luogo, dei Machua. In un percorso da eroe classico come quello del film, in cui il protagonista cresce affrontando nuove sfide e nuovi ostacoli ad ogni incontro del suo percorso, ho inserito la filosofia locale, il loro senso della vita. Senza la fiducia di Paulo non avrei potuto lavorare in questo modo, è un vero uomo di cinema».
Il film ha inaugurato il festival di Rotterdam nel 2020, che ricordi hai?
«Straordinari, c’erano tremila persone in sala a vedere “Mosquito”, è stato incredibile! Poi è uscito nei cinema in Portogallo, ma solo una settimana dopo è arrivato il Covid e hanno chiuso tutto. E’ andato subito in streaming purtroppo, è stato costruito per essere visto su grande schermo, nelle condizioni giuste, è stato davvero un peccato»
Ultima domanda: su cosa stai lavorando ora?
«Inizierò a girare a settembre-ottobre, dopo un road movie in Africa ho scelto un film da girare in Portogallo e in un unico luogo, si intitola “The last summer”. Affronta il tema della fine del mondo, di come tutto stia collassando: è ambientato in una vecchia proprietà che i proprietari hanno deciso di mettere in vendita, siamo all’ultimo incontro tra loro prima della cessione ma un grande incendio li blocca lì più tempo del previsto, e la convivenza forzata farà uscire tutti i loro conflitti. Ho partecipato a uno scriptlab a Bolzano, siamo stati a presentarlo anche a Trieste e poi alla Berlinale, sono felice di poterti dire che abbiamo una co-produzione italiana, Albolina, e avremo anche un attore italiano nel nostro cast».
Intervista a cura di Carlo Griseri